Fondazione Canossiana VOICA

Volontariato Internazionale Canossiano

FORMARE I CUORI

attraverso i nostri programmi di formazione che preparano i volontari ad “andare in tutto il mondo e proclamare la Buona Novella”, con entusiasmo e passione, nello spirito e nello stile del dono di Santa Maddalena di Canossa.

FARE LA DIFFERENZA

per gli altri attraverso atti concreti di servizio rivolti ai più poveri in alcuni dei luoghi più svantaggiati del mondo.

ESSERE TRASFORMATI

nella propria vita attraverso l’esperienza dell’incontro con gli altri.

Il nostro programma di volontariato si rivolge, in via preferenziale, ai giovani tra i 18 e i 35 anni, favorendo esperienze in ambienti multiculturali, nei Paesi in cui sono presenti le comunità canossiane: un’immersione diretta e la conoscenza di nuove città, culture, lingue e tradizioni. Servire a fianco delle Sorelle Canossiane, avendo la possibilità di assistere i più bisognosi attraverso i ministeri dell’educazione, dell’evangelizzazione e dell’assistenza ai malati.

vuoi fare la differenza?

TOGO

MALAWI

R.D. CONGO

UGANDA

Incontri ed opportunità 

LEGGI LE TESTIMONIANZE DI ALCUNI DEI NOSTRI VOLONTARI

… innalzano le loro preghiere al cielo cantando, muovendosi, ballando…

 

Mbote… è così che si saluta in lingala. Ad agosto sono partita con altri 9 volontari per l’ombelico del mondo, per Aru, una città di capanne nel nord est della  .D.Congo, al confine con l’Uganda, a 6000 km più a SUD da quella che consideriamo la a vita “normale”, la civiltà.

Sono partita senza aspettative, a completa disposizione dei volontari a tempi lunghi e della comunità di Suore Canossiane. Ho imparato a fare lavori semplici, sono stata nei campi a zappare, a piantare eucalipti, a raccogliere patate dolci, ho sbucciato arachidi fino ad avere le vesciche sulle mani, poi con gli altri volontari abbiamo catalogato i libri per la biblioteca, mentre i ragazzi si sono occupati della costruzione del campo da beachvolley… Mentre zappavo mi sentivo osservata, una schiera di bimbi mi guardava dal lato dei campi … allora mi fermavo e provavo a dialogare con loro e … se accennavo ad un canto, ad un bans, ecco che l’attenzione cresceva … che fosse un girotondo, il banana cocco baobab  o jack è in cucina con Tina oppure una canzone di chiesa…magari una delle loro che ho imparato alla messa, beh, il feeling era assicurato!

Insomma ho vissuto in una comunità di 12 volontari, aiutandoci in cucina, nelle mansioni quotidiane, inventando giochi da fare a lume di candela … ho partecipato ai momenti comunitari della popolazione andando al mercato ma soprattutto andando alla Messa!!! La Messa è il momento per iniziare la giornata, in cui i MOINDO (neri) ascoltano la Parola, fanno tesoro della predica e la Messa domenicale è la Festa con la F maiuscola … è l’evento settimanale più atteso … Durante le loro lunghe Messe ci si accorge che nessun bambino piange, e ce ne sono tantissimi, i loro vestiti sono coloratissimi, puliti ed ordinati, in contrasto con quelli indossati nei giorni feriali. L’attenzione è altissima e innalzano le loro preghiere al cielo cantando, muovendosi, ballando… tutto fa capire che sono lì in Chiesa per festeggiare, per unirsi in un unico coro, quello del ringraziamento e della preghiera a Dio.

E’ forse così che la preghiera del povero “attraversa le nubi e non si quieta finché non è arrivata, non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso  soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità”. E l’intervento di Dio è visibile grazie alla presenza proprio di missioni come quella delle Canossian Sisters o di altri missionari che si prendono cura di loro, dei poveri di Dio.

A  coloro che anche per un attimo hanno pensato di provare una esperienza in missione, anche breve come la mia, a loro dico di non rinunciare, di informarsi, di portare avanti questo desiderio, perché quello che si riceve in terra di missione è davvero tanto e speciale;  e anche l’aiuto che da qui, nel nostro piccolo, possiamo offrire con la preghiera, l’impegno missionario locale e il sostegno delle iniziative è altrettanto importante. Insomma, non ci sono eroi che vanno e vigliacchi che stanno…ognuno può avere un ruolo attivo nell’impegno missionario.

Per ora io gioisco di poter testimoniare quanto vissuto e di poter costituire per alcuni un punto interrogativo. Infatti spero di aver permesso e aver portato molti a riflettere sulla possibilità di dare e di amare, gratuitamente e con tanta gioia, perché farlo mi ha permesso di sentirmi amata da Dio. Perché si sa : “Dio ama chi dona con gioia”.

Alessandra R.

… tutti i giorni è come essere ad un corso di formazione!

 

E’ febbraio e Chiara, in posta a Pontevico (BS), mi dice che sta cominciando la preparazione per i volontari Voica per l’estate 2007 per le varie destinazioni nel mondo; Africa, Indonesia, Brasile presso le Madri Canossiane di Brescia.

Passano sei mesi e mi ritrovo seduta su uno degli aerei che mi sta portando in Togo chiedendomi se ho fatto davvero la scelta giusta visto che ho 48 kg di bagaglio di cui 24 solo di medicinali e una busta di donazioni in contanti pari a 7.000 euro…!!

E soprattutto da 10 ore l’unica donna bianca in volo…… per fortuna sono serena e non ho paura.

La casa dove abitiamo è molto semplice e ogni volontaria ha la propria camera e bagno. Non c’è acqua calda e poche volte la luce. E’ cintata da alte mura e tutte le volte che usciamo ci viene aperto un grande cancello dal custode Cocou.

Da lì in poi sei in Africa.

Il paesaggio è tutto verde ci sono piante di ogni forma e di ogni tonalità di verde baobab, palme, pini, piante secolari, erba incolta alta più o meno come me e la terra è completamente rossa. Nella nostra zona le strade non sono asfaltate e le strade a volte sono impraticabili soprattutto quando piove.

Più guardi lontano più vedi. Ci sono distese a perdita d’occhio, non ci sono grattacieli o case a più piani quindi si vede sempre tutto il cielo! Di giorno e di notte.

Il mio lavoro nel centro d’accoglienza è in farmacia. E’ un lavoro lento e di responsabilità, appena posso vado a trovare le colleghe togolesi e le volontarie italiane che fanno le medicazioni nell’ infermeria o nella degenza a trovare i bambini o gli anziani malati di malaria che fanno le flebo.

Per tre settimane hai una vita parallela: una nuova casa in cui vivere, delle amiche/inquiline unite come sorelle, il tuo lavoro (di 8 ore o anche più), la macchina, la lavatrice….e l’Africa.

Tutti i giorni è come essere ad un corso di formazione! Tutto è diverso da noi. Le persone, le caprette, le galline sono tutte nere, tu sei un pallino bianco. Tutti ti guardano soprattutto i bambini, in particolar modo chi non ha mai visto un bianco ti tocca le braccia e i capelli con gli occhi sbarrati e la bocca aperta e ti dice “yovo” cioè uomo bianco!

Ti senti l’ unica diversa da tutti! Nella capitale invece gli sguardi delle persone sono taglienti e perforanti qui ti senti un po’ extracomunitario con la differenza che sei l’uomo bianco ed è sinonimo di ricchezza! Ogni cosa che compri è il frutto di una lunga e snervante trattativa! La domenica andiamo a messa ed è bellissimo perchè è suonata con jambè, bonghi, maracas e cantata in gospel e tutti ballano e battono le mani creando un ondeggiamento comune di colori. Non puoi non esserne estasiato. L’Africa ti entra nel cuore. Le emozioni che ti dà l’Africa sono difficili da descrivere: ci sono momenti in cui piangi per quello che vedi e momenti in cui ridi. Ti senti come colpito e affondato. Ogni cosa o lavoro è estremamente semplice e tutti vogliono capire da te com’ è il resto del mondo, ma come fai a spiegargli che dove abiti c’è il progresso? 

I missionari Voica che conosci sono persone straordinarie ed eccezionali e ti permettono di fare un’esperienza unica, indimenticabile e indelebile nel cuore.

La missione e l’Africa ti aprono il cuore e la mente.

E’ stato difficile sacrificare tre settimane  di ferie estive perché sono tornata stanca fisicamente e ho perso 4 kg, ma non riesco a dire quanto mi ha arricchito interiormente.

Al rientro alla solita vita la parola “menate” si cancella dal tuo vocabolario personale e puoi solo continuare a ripeterti quanto sei fortunata ad avere di tutto e ancora di più! E soprattutto che seguire l’istinto porta sempre a fare la cosa giusta per se stessi!

Grazie VOICA e alla prossima…

Annalisa G.

… l’uovo più prezioso della mia vita

 

E’ difficile raccontare le numerose esperienze trascorse in Africa, dall’Uganda al Malawi, dal Togo alla Repubblica Dem. del Congo e la splendida Sao Tomè. Sono successe così tante piccole e grandi cose che il cuore a stento riesce a pulsare normalmente.

Sono arrivato che conoscevo veramente poco dell’Africa, in fondo avevo fatto solo viaggi-vacanza, safari fotografici e niente di più, ma oggi posso dire che sono ripartito, da tutte le missioni, conoscendo qualcosa in più, amando sempre di più, sognando all’infinito e, questo, ha cambiato tutto in me.

La prima volta sono arrivato e non conoscevo nessuno in missione, ma sono ripartito con le lacrime, piangendo mentre salutavo madre Imelda, l’angelo custode dei volontari,  e poi aggiungendo a questo viso dal sorriso sempre pronto, altre Madri, altri Volontari, altri amici africani …. L’Africa ha uno spirito che ti contamina, un cuore che ti penetra.

Sono arrivato pensando di trovare dei poveri bimbi senza nulla, dei villaggi desolati, deserti e aridi e invece ho visto bambini sorridere e divertirsi con quel nulla e donandomi qualcosa di neanche lontanamente immaginabile: una carezza! Ho trovato adulti pronti ad ospitarmi nella propria capanna o nella fatiscente casa con il sorriso più bello che un uomo ti possa donare: avevano solo un sorriso… e dici poco?

Un bimbo poverissimo, quasi nudo, solo perché avevo pitturato la sua aula, mi ha regalato un uovo… l’uovo più prezioso della mia vita. Una volta alla settimana mangio un uovo e solo perché voglio ricordarmi quel volto!

Sono arrivato con tanti dubbi sapendo forse di non trovare risposte alle mie domande, “è giusto venire fino a qui?, cambiare certi loro modi di vivere e vedere le cose?, noi bianchi falliti per molti aspetti?”

Non ho trovato una risposta e adesso non la cerco più perché chi ho incontrato mi ha insegnato il valore della vita, il grande dono dell’ospitalità, l’ardente desiderio di vivere, la gioia di credere. Perché rispondere?

Allora penso a ciò che è rimasto in quella splendida terra rossa: al dispensario, alla fattoria, al cyber cafè; alla scuola di Bethlehem, ai ragazzi disabili e a quelli di Aguaizé, agli splendidi giovani che giocano a pallone o studiano, stipati, nelle grezze aule, ai loro genitori e soprattutto alle Madri Canossiane. E capisco che il lavoro fatto è fantastico, e questa è la strada da seguire.

Non mi resta che ringraziare di cuore il Voica per le esperienze che mi ha permesso di vivere.

Non mi resta che ringraziare di cuore i numerosi volontari che hanno condiviso queste gioie e che porto nel cuore.

Non mi resta che ringraziare il buon Dio che mi ha permesso di vivere la mia missione con i suoi occhi.

E che l’Africa sia sempre con noi!

Claudio 

… loro mi hanno cambiato lo sguardo

 

Vi scrivo da Ariwara, quando scende l’intimità della notte e il silenzio delle cicale.

Non chiedetemi di spiegarvi l’Africa in poche righe, perché sarebbe come trovare il segreto del sorriso di un bambino.

Non chiedetemi neppure di dirvi perché io sia arrivato sin qui, dal mio paesino nel Comasco, dal mio bel posto come insegnante di lettere, dalla mia casa comoda: sarebbe come trovare il perché di un amore che sa cambiare la vita. Se posso essere sincero, non è stata per nulla una scelta drastica o coraggiosa, quanto piuttosto la continuazione naturale di un cammino: anche se non avevo mai pensato a progetti in Africa, quasi per curiosità nel 2015 sono partito per circa un mese di volontariato nella missione di Bethlehem, nel sud dell’Uganda. Le forti emozioni vissute, il fondamentale supporto de VOICA, l’aver trovato compagni di viaggio unici e arricchenti, il desiderio di conoscere ancora di più mi hanno spinto a tentare un’esperienza più profonda: ho chiesto un anno di pausa dal lavoro ed eccomi qua. Qualcosa di semplicemente naturale.

Vi posso solo raccontare quello che vedo, le persone che incontro, i pensieri che mi passano per la testa.

Un giorno ho incontrato in ospedale una giovane ragazza, Grace, di appena 16 anni: aveva partorito il suo bimbo qualche giorno prima ma il suo uomo era fuggito chissà dove, abbandonandola sola all’ospedale, senza neanche i soldi per un pasto. E lei sorrideva, di un sorriso avvolgente come la luce di questa terra. A me, che stupidamente mi interrogavo, ha mostrato il suo bimbo, Mungutsi. Bastava lui, a darle tutta la gioia che il mondo può contenere.

Ecco, la prima volta che conosci l’Africa non sai se ridere o piangere, della povertà, della calma indolente, del godere dell’istante senza preoccuparsi del futuro; poi impari semplicemente a sorridere.

Le vere difficoltà non sono il caldo, la malaria o il cibo totalmente differente, ma l’impatto con una realtà cruda come quella che si incontra qui, una realtà con la quale si fatica a interagire senza prima entrare nell’universo culturale delle persone che la abitano. Solo qui, nel nostro piccolo ospedale, muoiono quotidianamente bambini per malnutrizione. Si toccano situazioni di povertà che in Italia conosciamo solamente per sentito dire o che neppure immaginiamo. Ma dopo aver vissuto qui, con loro, dopo che la loro casa è divenuta anche la tua, anche le situazioni del loro futuro prossimo iniziano a pesare, con questi continui riverberi di violenze e sfruttamento. È proprio per queste difficoltà, però, che bisogna andare avanti e avere coraggio. A volte inizio a pensare che i poveri, gli oppressi siano una delle poche ricchezze rimaste a questa umanità.

Ora faccio fatica, a chiamarli “poveri”. Forse non sono poveri, sono solo altro da questo nostro mondo, forse i poveri sono altri, ma chissà chi o cosa sancirà chi, tra noi e questo “mondo primo”, sia veramente meglio. Forse siamo noi a non essere la normalità, ma l’eccezione.

Africa è come una donna che porta sulla testa il mondo. Il paese dove le lamentele e i pianti non hanno spazio, il paese dove la gioia non costa nulla.

L’Africa è davvero un mondo diverso e, come spesso mi piace pensare, un mondo non primitivo, ma “primo”, ovvero più legato all’essenzialità e all’autenticità dell’esistenza. Ecco perché questo diverso tessuto culturale e sociale ti smonta pezzo per pezzo, ma poi ti ricostruisce con uno nuovo sguardo, in cui anche l’indigenza, la malattia, la morte acquisiscono nuovi significati.

Qui c’è pure il mio amico Justin: viene da Lamila, un villaggio sperduto nella savana a qualche kilometro da qui, un villaggio di capanne e capre. Da bambino la mattina all’alba faceva due ore a piedi per andare a scuola, per ritagliarsi un futuro. Ora fa l’infermiere nella pediatria dell’ospedale e, quando gli chiedo cosa ne pensi, di questo ospedale sperduto nell’Ituri, ne parla come di un dono straordinario. Presto costruirà una piccola casa sul terreno comprato grazie ai piccoli risparmi e potrà sposarsi con la sua fidanzata, dar vita a nuovi inizi e nuovi cicli.

L’altro giorno Moise mi raccontava di quando durante la guerra civile, neanche vent’anni fa, si nascondeva nella foresta per sfuggire ai miliziani che passavano villaggio per villaggio ad assoldare i bambini; ora, grazie all’aiuto delle madri canossiane, studia all’università e sogna di diventare insegnante, di educare una nuova generazione.

Pensavo che la loro assoluta Bellezza sta nel fatto che hanno visto in faccia la durezza della vita, in ogni sua difficoltà, e l’hanno affrontata, la Vita, quella vera e autentica, a volte persino selvaggia. Hanno vinto, hanno perso: non conta, l’hanno affrontata fissandola dritto negli occhi.

Non pensiate che io faccia chissà che: qui all’ospedale di Ariwara dopo un primo periodo di ambientamento, di animazione con i bambini e lavori di normale manutenzione, visto che non ho una preparazione medica specifica, ho fatto un po’ di tutto: ho lavorato alla farmacia, tra medicine e indicazioni posologiche, alla cassa, alle prese con cambi, conti e lingue esotiche da decifrare, all’amministrazione, ho cercato di dare una mano per il sistema informatico dell’ospedale, ma ho anche imparato a dare una mano agli infermieri nelle urgenze, a montare sedie ginecologiche o per esempio a scacciare vipere.

Vedete, non è nulla di speciale, a volte io stesso ho il dubbio di non fare proprio niente, eppure sto. Sto e mi presento per come sono, sto e vedo le loro difficoltà, spesso anche il loro dolore, sto e guardo loro negli occhi, dico “io sono qui, sto al vostro fianco”. È questo stare che per me da valore a quell’inutile nulla che faccio. Il fatto è che al Paradiso io ci credo, io ci sogno, ma ora so bene che in Paradiso non si può entrare da soli, che ce lo si deve creare qui, tra noi, coi nostri fratelli. E che no, non è nemmeno tanto lontano da qui.

Non so quanto potrò mancare loro, ma sono certo che io sì, sentirò una mancanza terribile: mancanza della musica, del baccano caotico e quantomai vivo per le strade, mancanza della loro fede, della loro intensità, ma quello che farò ancor più fatica a lasciare qui saranno gli amici, le tante persone con cui ho condiviso molto: Madimi, Bolingo, Mauwa, Claudine, … ma un’amicizia si potrà mai raccontare?

Emmanuele P.

…  l’Africa e i poveri si erano già appropriati di gran parte di me

 

Per qualche strano motivo spesso ci si  sente affrancati dal correre il rischio che la nostra esistenza possa risultare migliore o semplicemente diversa agli occhi di quell’infinitesimale frammento del mondo che già conosciamo a memoria.

Ma io mi chiedo che senso abbia tutto questo. Che senso ha indugiare, accontentarsi, precludersi la felicità, rinunciare a rispondere ad una chiamata, come se bastasse fingere di non sentire.

Da poco, ho preso la decisione di passare un anno della mia vita distante migliaia di km da casa per mettermi, a tempo pieno, a servizio dei bisognosi.

Per una come me, abituata a razionalizzare tutto, era impensabile, fino a qualche tempo fa, lasciare un lavoro sicuro, la mia famiglia, i miei amici, una vita apparentemente perfetta, serena e alla quale non avrei proprio potuto chiedere nulla di più. Mi soddisfaceva, così com’era.

Mi ha resa felice fino a quando, un’estate, ho scelto di passare un mese in una missione nel cuore dell’Africa. Da lì tutto l’appagamento accumulato negli anni ha iniziato ad esaurirsi perché l’Africa e i poveri si erano già appropriati di gran parte di me, tanto che quella sporadica “boccata d’ossigeno” che, per un mesetto d’estate mi permetteva di riprender fiato, non bastava più.

Non mi basta più restare ferma di fronte ad un mondo che lotta, che si consuma e che soffre, che nasce e muore ogni volta che tu resti a guardare. È quando non ti basta più che devi decidere. E’quando non ti basta più che capisci che correre il rischio è necessario.

E’ necessario mettersi in gioco e credere fermamente che ogni vita possa essere diversa. Questo può accadere solo se lo vogliamo veramente, solo se siamo pronti a destabilizzare e a scuotere e ad assillare d’amore il nostro essere uomini.

E’ naturale che certe scelte, oltre a generare numerose incognite, comportano sacrifici e lasciano spesso, largo spazio ad ansietà e paure .. ma ora che finalmente ho deciso, tutto sembra più semplice, anche affrontare l’amareggiata reazione di un genitore teneramente protettivo o l’abbraccio forte di un’amica che soffrirà nel vederti partire ma per la quale l’emozione di saperti felice sarà più forte della nostalgia.

In tutta sincerità, in questo momento  mi risulta molto difficile immaginare dove mi porterà un simile percorso, iniziato da pochi giorni e già in salita .. ma so che l’affanno di questo cammino non potrà far altro che permettermi di respirare a pieni polmoni la gioia di amare.

Laura G.

… accettare la vita come una festa

 

Vorremmo provare a raccontare la nostra esperienza estiva partendo da alcune parole di una canzone che ha accompagnato le nostre giornate africane. Le cose che abbiamo visto e che abbiamo vissuto non si possono trasmettere solo con le parole.

Così come nessuna foto, nessun video o commento renderà giustizia alla bellezza di Bethlehem, il piccolo villaggio in Uganda in cui siamo stati lo scorso luglio a fare volontariato, grazie all’associazione VOICA. Una scuola, una manciata di case, una chiesa, noi cinque volontari e tantissima gente: un mondo da raccontare. Ecco quello che abbiamo visto.

Abbiamo visto bambini indossare la stessa maglietta, sporca e piena di buchi, dal primo all’ultimo giorno di missione.

Bambini che erano consapevoli di quanto fossero fortunati perché altri non l’avevano nemmeno.

Sono inesauribili, quei bambini: non si stancano mai, sebbene lavorino fin da piccoli, e hanno sempre voglia di fare, di imparare, di capire. Giocare con loro è una lezione: non mollano mai, lottano su ogni pallone; sono scalzi su un campo che è terra rossa, erba secca e sassi. Piante da evitare come paletti e porte fatte con sassi o quello che si trova in giro. È tutto troppo bello: rendersi conto di non avere niente e in quel niente trovare tutto quello che serve per stare bene.

Abbiamo visto bambini fare chilometri e chilometri sotto il sole, con pesanti taniche piene di acqua sporca, che portano a casa alla famiglia per lavarsi, bere e cucinare.

Abbiamo visto ragazzi lavorare e spaccarsi la schiena per un compenso di qualche banana, mango e ananas al giorno.

Abbiamo visto tante persone in difficoltà, che non hanno i soldi per pagare l’iscrizione a scuola dei figli, o addirittura non hanno denaro per sfamarli. Ma le abbiamo sempre viste con il sorriso sulle labbra, gentili e accoglienti, pronte a ringraziare ed a regalarci quel poco che hanno.

Siamo partiti con l’idea di aiutare chi stava peggio di noi e siamo tornati con la consapevolezza che loro ci hanno aiutato a capire cos’è la felicità vera. Quella piena, che ti toglie il fiato, che ti stampa un sorriso in faccia che non sei capace di togliere. Siamo tornati con qualche soldo e qualche vestito in meno, ma il cuore pieno di gioia: forse è questa l’unica cosa che conta.

Siamo riusciti a fare molto, forse più del previsto. Ogni mattina, secchi, pennelli, guanti e tutti insieme si andava a lavorare. Abbiamo dipinto alcune aule della scuola, la segreteria e alcuni uffici.

Con il denaro raccolto in Italia, anche grazie alle uova di Pasqua vendute ad Alfianello, abbiamo ampliato i dormitori (dove dormono i bambini che abitano lontano dalla scuola) e costruito i bagni e le docce.

Si, costruito i bagni, perché prima il loro bagno era un campo di grano e le loro docce un bicchiere d’acqua nel cortile. Questi lavori sono stati sicuramente impegnativi, ma hanno reso la scuola -il luogo dove quei fantastici bambini passano in pratica tutta la giornata, da quando sorge a quando cala il sole- un po’ più vivibile e più piacevole.

Abbiamo dedicato anche parte del tempo a pitturare l’interno del convento delle Madri Canossiane che ci hanno accolto: quattro donne fantastiche, piene di vitalità, accoglienti, gentili e premurose.

Ma soprattutto, siamo stati con la gente. Con loro abbiamo giocato, riso, condiviso esperienze, camminato: abbiamo unito le nostre vite alle loro.
E così, come diceva la canzone all’inizio, abbiamo capito cosa significa avere il cuore in festa.
Abbiamo capito cosa significa fare qualcosa di utile.
Abbiamo capito cosa significa sorridere davvero.
E abbiamo capito, lontano dalle nostre sicurezze, quanto nel poco si possa trovare il molto.

Per quanto riguarda il Voica, saremo presenti ancora nella provincia di Brescia, con svariate iniziative per raccogliere fondi per progetti importanti.

Vi assicuro che vedere che ogni piccola donazione diventa, in Africa, qualcosa di concreto (aule, bagni, sostegno alle rette scolastiche) e che nulla va sprecato, è una soddisfazione che ripaga di ogni fatica.
Abbiamo scritto queste righe perché, tornando a casa, l’unica cosa a cui pensavamo era che, se fossimo riusciti a raccontare l’esperienza di Bethlehem anche solo ad una persona, avremmo fatto il nostro dovere.
Davvero, provare per credere: chi prova un’esperienza simile, non riesce più a farne a meno.

Marco S.

 

… mi dicono che quando parlo dell’Africa i miei occhi brillano.

 

Inutile dirlo, il viaggio è stato tremendo: lungo, pesante, faticoso, caldo. Siamo arrivati la sera, era tardi, ed eravamo stanchi. Poi non so cos’è questa storia, che quando ti rendi conto di dove sei, non conta come hai fatto ad arrivarci. Sei lì, ed è il posto migliore in cui tu potessi capitare. Non è stato facile ingranare, all’inizio. Il caldo, le piogge, gli insetti..ho sentito parlare perfino di qualcuno rannicchiato tutta notte su una valigia per paura degli scarafaggi.. Poi succede come una magia, e tutto vien da se..l’ Africa ti travolge, letteralmente. Gli odori, i colori, i suoni: la musica dei bonghi, le voci della gente; le mani dei bambini, sempre a stringere le tue, a toccare i tuoi capelli, ad aggrapparsi alle tue gambe. E gli sguardi: certi occhi è come se ti prendessero in prestito il cuore e te lo restituissero nuovo.. I progetti erano tanti: il grest, i lavori all’ospedale, al container e quelli a casa VOICA.

Abbiamo lavorato sodo, e i risultati non hanno tardato ad arrivare. Le due settimane di grest coi bambini hanno messo a dura prova la nostra resistenza sia fisica che psicologica.. ma al termine di ogni giornata, vederli correre con i loro lavoretti costruiti insieme a noi, era davvero una gioia infinita. Vedere la soddisfazione nei loro occhi, e la felicità di chi si sa accontentare ancora di poco, che poi poco non è. E’ poco solo per noi, che non siamo più in grado di sorridere delle piccole cose. Cose che per loro, invece, sono importanti. I bambini a 6 anni dovrebbero portare sulle spalle lo zainetto di scuola, e invece lì portano il fratellino più piccolo, di cui devono imparare presto a prendersi cura al posto della madre. I bambini a 10 anni dovrebbero tenere tra le mani dei giochi, o magari dei libri..e invece a volte li vedi lì, ai bordi delle strade, e tra le mani hanno solo zappe e maceti, per lavorare e provvedere al sostentamento della propria famiglia. A 18 anni le ragazze dovrebbero diplomarsi, e vivere la propria adolescenza come è nel diritto di tutti..e invece spesso sono già sposate e incinte.

Ci sono tanti bambini, in Congo. E noi abbiamo sorriso a tutti quelli che abbiamo potuto; li abbiamo fatti giocare, cantare, ridere. Abbiamo speso tutte le nostre energie per vederli felici..e se ci siamo riusciti anche solo un po’, allora è valsa la pena di tutte le ore passate a pensare a cosa fare, e a preparare il materiale per realizzare dei bei giochi con loro. Abbiamo corso, saltato, ballato..e ci siamo resi ridicoli per loro, che ridevano di noi e noi ridevamo con loro. E i bambini che non potevano ridere con noi al grest, che fortunatamente erano pochi, li siamo andati a cercare in pediatria, con le bolle di sapone e i palloncini. Poi abbiamo lavorato al container: era vecchio, sporco e arrugginito. Noi lo abbiamo lavato, scrostato e dipinto..e presto sarà un mercatino che servirà a raccogliere fondi per l’ospedale. .. e sì, abbiamo lavorato anche all’ospedale.

E’ una realtà dura, che abbiamo potuto vedere da molto vicino grazie a Madre Marcela e a chi di noi ci ha lavorato direttamente. Sale operatorie spoglie, e medici che pur non avendo nulla riescono a fare davvero di tutto. Abbiamo sistemato alcune camere dell’ospedale, dipinto mobili, rimesso a nuovo dei vecchi letti arrugginiti. E abbiamo imparato insieme che la diversità non è un ostacolo, ma una risorsa. E guardo le mie scarpe, che portano i segni di tutta la strada fatta; e guardo i miei vestiti, che portano i segni della vernice usata in quel mese; e guardo il mio cuore, che porta i segni dei sorrisi condivisi coi miei compagni di viaggio, dei ricordi felici al grest, delle nostre passeggiate, sotto il sole cocente del mattino o sotto il temporale del pomeriggio.. delle mattine vedere l’alba, le sere a vedere il tramonto, e delle notti trascorse a guardare le stelle seduti tra il brillio delle lucciole.. delle nostre discussioni e delle nostre confidenze;

e guardo la mia mente, che porta i segni delle grida provenienti dall’ospedale, di madri che hanno perso i loro figli, che con i mezzi di cui noi disponiamo tranquillamente, loro si sarebbero probabilmente potuti salvare..e guardo i volti delle persone più anziane, che portano i segni di una schiavitù non troppo lontana.. e ascolto le mie orecchie, che hanno sentito storie di bambini che ancora vengono rapiti e trasformati in soldati, di donne violate, di famiglie rovinate e di sogni infranti.. Perchè se c’è una cosa che queste esperienze insegnano molto bene, è che in un mondo in cui tutto ha un valore, e tutto ha un prezzo, la verità è che alla fine le cose più preziose sono quelle gratuite: un prato in cui correre, un cielo in cui far volare il proprio acquilone, le stelle a cui raccomandare i nostri desideri più intimi, il sole da guardar sorgere quando il resto del mondo dorme ancora, lo scodinzolio di un cane, l’eco di una risata incontrollata, la sorpresa di un abbraccio inaspettato, una canzone cantata in compagnia..e le persone giuste accanto a te.

E allora, se mi dicono che quando parlo dell’Africa i miei occhi brillano, è perchè non importa nè degli insetti, ne del lungo viaggio, delle docce fredde o dei viaggi fatti su mezzi improbabili..ciò che conta è essere lì, e cercare di fare la differenza. Perchè in un mondo in cui ancora troppo pochi sono disposti a fare qualche sacrificio per aiutare gli altri, ringrazio chi ogni giorno sceglie di aprire gli occhi e interessarsene.. e chi lo farà. Perchè l’Africa non è solo un pezzo di terra..è un universo di storia, cultura e tradizioni che ha tanto da insegnarci. E a volte basterebbe solo aprire un po’ la mente e il cuore, per aiutarlo, anzichè voltarsi dall’altra parte e far finta di nulla. Perchè in fondo, “se niente importa, non c’è niente da salvare”. No? “Quello che conta nella vita non è il semplice fatto che abbiamo vissuto. È il modo in cui abbiamo fatto la differenza nella vita degli altri a determinare il significato della vita che conduciamo. (Nelson Mandela)”

Margherita B.

… tutti assieme sul pick-up, con sister Giusy

 

Malawi, il “caldo cuore dell’Africa”. Laggiù queste’estate, assieme ad altri 9 ragazzi, madre Antonietta e Claudio, diacono, ho trascorso il mese di Agosto. Non era la prima esperienza, ma certo sarebbe stata nuova, originale, unica. Ci siamo recati in un posto che credo molti dovrebbero controllare sulla cartina geografica dove si trova precisamente, la cui superficie è per quasi un quarto coperta da un grande lago, minuscolo fra la vastità delle terre africane, ma che ci ha travolti per la sua grandiosità.

Il progetto che ci ha condotti là e che è servito ad animare noi e chi ci sta vicino, prima della partenza, e che ha dato concretezza alla maggior parte dei nostri giorni in Malawi, era la costruzione di due classi, la ritinteggiatura e la realizzazione di alcuni murales in altre aule della scuola materna della missione di Nsanama. Questo piccolo paese-villaggio si trova distante dalle principali città malawiane, non so quanti abitanti faccia, né precisamente a quanti kilometri disti da Lilongwe (la capitale), ma i numeri e le distanze non sono così importanti, non certo determinanti. Giunti a destinazione abbiamo perciò iniziato ad osservare ciò che ci stava attorno, a muovere timidamente i primi passi, spesso anche calpestando aiuole preziose senza rendercene conto; questo può accadere quando ci si incontra/ scontra con la diversità.

Le nostre giornate sono perciò state scandite dal lavoro, dalle visite nei villaggi, dagli scambi con la gente di Nsanama, dalla vita comunitaria all’interno della missione, dalla conoscenza reciproca nel gruppo, da gesti cioè apparentemente semplici.. solo apparentemente però. Abbiamo appreso di trovarci in un paese molto povero, con delle risorse potenziali, sommesse e  sommerse, come le risorse idriche e una superficie che è spesso in gravi difficoltà, basata su un’agricoltura essenziale e a conduzione familiare, avvicinata e schiacciata dall’infezione da HIV, con molti orfani e grandi fatiche. Abbiamo però anche appreso che è un paese che non ha mai avuto guerre, in cui cristiani e musulmani convivono amichevolmente e piacevolmente, in cui il tempo è una risorsa preziosa da godere e il sorriso accogliente un’abbondante materia prima.

La nostra conoscenza, passata per gradi, filtri, sensibilità, desideri e pregiudizi personali è avvenuta attraverso gli Incontri. Gli incontri sono stati in primo luogo fra di noi, fra le aspettative di ciascuno, le convinzioni pregresse circa l’esperienza e la realtà che avremmo incontrato, con i pezzi di sé che ciascuno aveva voglia di depositare in quella frazione di spazio e tempo comune. Poi gli incontri sono stati con le sorelle canossiane presenti nella missione. Sister Giusy prima di tutto, ma anche sister Cecilia, Modesta, Anne sono state ponte con le persone e con la realtà attorno; loro stesse sono state anche esperienza di crescita per noi. Osservare la semplicità, l’intensità e la fortezza del loro agire, la solidità e la fiducia nel prossimo, le loro amorevoli cure nei nostri confronti, capaci di stare lontane dalla facile caduta in giudizi, mi hanno sorpreso, emozionato e nutrito.

Gli incontri sono stati poi durante le messe.

Nel mese di Agosto sono stati celebrati i principali sacramenti, eventi che hanno coinvolto moltissima gente del villaggio e dei dintorni; ci hanno mostrato l’intensità di coinvolgimento e di partecipazione di tutti. Noi ne abbiamo goduto, abbiamo condiviso con loro, chi concelebrando, chi cantando, chi pregando o battendo le mani: stando assieme. Gli incontri sono stati per le strade, nei villaggi che abbiamo visitato. Tutti assieme sul pick-up, con sister Giusy o Kateri (volontaria americana VOICA a tempi lunghi) si attraversavano paesaggi naturali splendidi, per molte ore e si arrivava alla meta. L’obiettivo non era quello di fare, ma di essere presenti, di scambiare alcuni momenti di conoscenza, partecipare ad una messa assieme o visitare una scuola. Questo per noi è strano, poiché ogni nostro movimento, “nelle realtà occidentali”, deve avere un obiettivo concreto, fattuale, una produzione.

Lì i risultati non erano di sostanza concreta, ma c’erano, senza dubbio.

Nel periodo in cui siamo stati a Nsanama le scuole erano chiuse e abbiamo così potuto preparare le strutture per l’inizio del nuovo anno scolastico. Abbiamo lavorato, i ragazzi soprattutto, con i muratori del posto. Questo l’incontro fra i più intensi, che faceva faticare non solo fisicamente, ma anche lanciava domande, non permetteva di dare risposte immediate a modalità e concezioni del lavoro e del vivere a volte così distanti. E allora il dialogo e forse anche alcune piccole risposte, nel muro che cresceva, alzato da più mani., colorate, con e senza guanti, che saliva diritto.

Quanto da dire ancora di questa esperienza, come poter descrivere i volti, le danze, le musiche, i colori, le emozioni nell’incontro con i bambini, ma anche gli odori, le assenze e le fatiche della povertà. Quanto da dire sugli interrogativi che sono esplosi, sui contrasti così vivi. I contrasti ci affascinano, ci emozionano, ma ci fanno anche male, ci rendono difficile capirne il senso. Quanto da dire, ma forse è meglio concludere con… zikomo kwambili! (grazie mille).

Silvia A.

…  “il valore di un secchio d’acqua”

 

“È una missione bellissima”, dicevano. “Ci ho lasciato un pezzo di cuore” e “Vedrai come la gente vi accoglierà a braccia aperte”. “Un popolo poverissimo che però dona tutto ciò che ha”, dicevano. Così raccontavano la missione di Bethlehem i ragazzi che l’anno scorso, per la prima volta, avevano messo piede nel villaggio ugandese in qualità di volontari Voica. Con queste parole in testa, un gruppo di otto giovani, accompagnati da madre Amelia, si sono diretti in quella piccola realtà immersa tra i bananeti dell’altopiano al confine con la Tanzania.

“Perché andiamo?”, si domandavano i giovani durante i giorni che precedevano la partenza. “Cosa potremo fare per loro? Insegnare qualcosa? Che cosa? Aiutarli a tinteggiare? Cinquemila chilometri e ventiquattro ore di viaggio per tinteggiare? E noi, cosa potremo imparare da questa esperienza? La gratuità? L’accoglienza? L’amore? E come si imparano queste cose? Chi ce le potrà insegnare, spiegare?”. Belle parole, quelle che descrivevano la missione. Aspettative alte, quelle che si erano create nel cuore dei ragazzi. Ma chi avrebbe mai pensato che la realtà avrebbe superato le promesse? Un piccolo convento, due madri, un prete nella casetta accanto, la chiesa, la scuola e qualche capanna. Elettricità scarsa, acqua corrente inesistente. “Non potete farvi la doccia, altrimenti esaurirete le già scarse riserve idriche. Ecco un secchio e una scodella: li userete per lavarvi, alla sera. Niente paura, con un secchio d’acqua si possono fare un sacco di cose!”, disse madre Magdalene. “Quante cose si potranno mai fare con un secchio d’acqua…?”, pensavano i ragazzi.

E così, a poco a poco, stavano entrando in quel mondo, povero, a volte misero, ma al contempo dal cuore tanto grande. Tra la costruzione e la tinteggiatura degli ambienti scolastici e dei nuovi servizi igienici al mattino e l’organizzazione del campo estivo per i bambini nel pomeriggio, le giornate trascorrevano ricche, intense, piene, nella semplice routine della vita comune, all’interno del convento. Cuocere la pasta, con un secchio d’acqua. Lavare i piatti, con un secchio d’acqua. Fare le pulizie, altro secchio d’acqua. Doccia, un altro ancora. “Beh, in effetti con un secchio d’acqua si possono fare parecchie cose”, iniziavano a pensare. “E la gente del posto? Quanta acqua ha? Dove si rifornisce? Che uso ne fa?”. C’è una pompa, nel mezzo del villaggio, e ci accorgiamo che i bambini trasportano grosse taniche gialle, ogni giorno, per portare acqua alle loro famiglie, percorrendo anche chilometri a piedi, carichi di quel bene tanto pesante quanto prezioso. “Allora forse l’acqua non è solo utile, è anche un gesto di amore”, intuivano i ragazzi. “Sì, cosa ci sta dietro a quei pochi litri di “oro blu”?”. Dietro c’è la mano che stringe la maniglia della tanica, ci sono i piedi che la trasportano fino a casa, dove è la famiglia. Dietro c’è il sorriso di madre Josephine che rinuncia a lavare i panni per lasciare ai volontari la possibilità di lavarsi. C’è il senso dell’essenziale, c’è il senso della gratuità, c’è il senso della Vita. “Ecco chi ci può insegnare queste cose. Ecco chi ci spiega il significato di parole come gratuità, accoglienza, amore.

È questa gente, loro sono gli insegnanti. Insegnanti muti, senza parole da dire, che insegnano con la testimonianza della loro semplice vita. Ecco la lezione, di quelle che non si seguono in un’aula scolastica, di quelle dove impari semplicemente osservando le persone vivere la propria vita e, se sei fortunato, condividendo la vita con loro, per un po’ di tempo, per un pezzetto di strada.” Allora si torna a casa con qualche lezione imparata, con gli occhi un po’ diversi, con il cuore un po’ più attento. Si impara a non sprecare l’acqua, perché anche se noi, in Italia, ne abbiamo parecchia, altre persone, tante persone, che dopo il nostro viaggio non sono più “gente”, non sono più numeri, ma sono volti, sono voci, sono sorrisi, lacrime, abbracci, strette di mano, preghiere, desideri, ecco, loro non ne hanno per niente. E allora non è giusto sprecarla. Ma c’è qualcosa in più. Si impara ad apprezzare l’essenziale, a gustare le cose veramente importanti della vita. E allora la vita non è più fatta di “Non ho…”, di “Mi manca…”, ma si arricchisce di “Quanto è bello…”, di “Come sono fortunato…”, di “Grazie per…”. Si impara a ringraziare per le vite meravigliose che ci sono state donate, ad apprezzare le fortune che abbiamo, che non sono più cose dovute, scontate: sono doni.

Si impara che chiunque, anche il più povero degli uomini, può essere un grande maestro, se hai le orecchie giuste per ascoltare. Si impara che la ricchezza sta nel donare, più che nell’avere, lo hai capito bene quando hai fatto visita a quella famiglia poverissima che non ha voluto lasciarti andare via prima di averti riempito di regali, meravigliosi nella loro semplicità. Si impara che a vivere da soli si fa quel che si vuole, ma che a vivere insieme si costruisce la civiltà dell’amore. Si impara che è un gesto semplice, come portare un secchio d’acqua, a dimostrare l’amore, più che mille “Ti amo”. Grazie a Claudia, Emanuele, Marco, Veronica, Cecilia, Valeria, Antonella, che hanno condiviso con me questa esperienza di missione e l’hanno resa così speciale per le belle persone che sono. Grazie a madre Amelia, testimone instancabile dell’Amore, che è stata per noi amica, confidente, compagna di viaggio, maestra e collega di lavoro. Grazie alle madri e a padre Cosmas che ci hanno accolti con l’amore di una famiglia e che spendono la loro vita in un infaticabile sostegno a questa gente. Grazie al Voica che non mi delude mai.

Stefano C.

…   ogni sera mi addormentavo con il sorriso e con la voglia che la notte trascorresse in fretta per iniziare una nuova giornata

 

Molti chiedono cosa spinga le persone a lasciare la propria terra per andare in missione o per fare una esperienza più o meno lunga di volontariato… lasciare la propria terra nella quale è inserita la propria vita, i propri affetti, la propria casa per andare in un’altra nazione o continente che sia, da popoli con diverse culture, tradizioni e stili di vita?!?.

Io sono partita per un mese di volontariato con il VOICA (dopo vari incontri di formazione) in Togo, ad Agoè, nella comunità Yayra …

Non ho maturato all’improvviso la scelta di partire, ma penso che il Signore dall’alto mi abbia guidato e abbia fatto scattare dentro di me qualcosa che nonostante la mia giovane età mi ha spinto a partire; l’occasione giusta era in questo momento: bisognava coglierla al volo, nonostante l’insicurezza dei miei genitori e lo stupore dei miei amici. Sono queste persone, a me care, che involontariamente mi hanno dato la forza per partire, anche se loro erano assaliti da dubbi ed insicurezze io invece sicura della mia decisione ci credevo veramente, avevo esuberanza, entusiasmo e forza da vendere prima della partenza e al ritorno ne avevo ancora di più, tanto ho vissuto intensamente e pienamente lo scopo della missione: donare se stessi.

Più faticavo e mi mettevo a servizio degli altri, più traevo soddisfazione e voglia di fare: penso di aver davvero vissuto il mese più bello e intenso della mia vita! Con tutti gli altri volontari, sia a tempi brevi che a tempi lunghi, lavoravo al “Centro Medico Sociale VOICA S.ta Bakhita”, il quale fornisce assistenza sanitaria a basso costo, ed in certi casi gratuita, per far fronte al sistema sanitario togolese nel quale “solo i ricchi hanno la possibilità di curarsi”. Ogni volontario aveva il suo compito, chi con competenze sanitarie e non collaborava dove vi era il bisogno, accettando ogni cosa proposta, non importa se piccolo o grande lavoro, del quale magari non capiamo l’importanza perché non ne vediamo subito i frutti, ma senza accorgerci abbiamo seminato qualcosa che solo con il tempo e con altre persone che continueranno il nostro stesso cammino diventerà frutto.

E se non saremo noi a goderne in prima persona non conta, poiché nel nostro piccolo siamo stati grandi essendo una tappa fondamentale di una lunga fila di persone che condividono un progetto comune. Ogni sera, anche se affaticata, mi addormentavo con il sorriso e con la voglia che la notte trascorresse in fretta per iniziare una nuova giornata. Lavorare a contatto con gente malata e che soffre non è assolutamente facile, bisogna essere forti e non farsi sopraffare dall’emozione.

Ho visto cose che gelano il sangue e ti cambiano la vita: una ragazza morire di AIDS sola in un letto di ospedale e sapere che ce ne sono mille altre come lei e io ad osservarla impotente, non potendo far niente per evitarlo, se non starle vicino e farla sentire amata negli ultimi minuti della sua vita. Fa tanta rabbia vedere certe cose ed esse non sono facili da accettare, ma la voglia di lottare contro queste ingiustizie dà la carica per continuare, come dà gioia vedere la luce negli occhi delle persone che si aiutano, nonostante siano sconosciute, parlino un’altra lingua o non capiscano il perché del nostro aiuto.

Ho nostalgia di tutto questo… della gente, del cielo, della terra rossa, del profumo dell’Africa, della comunità.

La mattina quando mi sveglio sento che mi manca qualcosa, che in Togo non mancava; sembra un controsenso visto che sono nella mia casa, con tutte le mie cose, con tutta la mia famiglia. È difficile da spiegare, ma già dai primi giorni in Africa era come se io vivessi lì da sempre tanto ero felice; penso sia stato il Signore e la grande famiglia della comunità, le mie guide lungo questo percorso, che ho percepito come un percorso di grandi esperienze che mi hanno fatto crescere; mi piacerebbe molto trasmettere tutte le emozioni provate, alle persone che mi circondano, ma è davvero difficile perché non si riesce mai a raccontarle come si vorrebbe.

Non ho ben capito se ho lasciato il mio cuore in Africa o se ho l’Africa nel cuore… Voglio ritornarci per scoprirlo, spero di riuscire a lasciarmi guidare dal Signore…

Carolina C.

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