di padre Angelo Bettelli
Osteria
C’è un posto, nel Vangelo di Luca, che è la casa di tutti, e dove (quasi) tutti sono di casa. È la “locanda” (ovvero, la casa dell’ospite e dello straniero) nella quale il Buon Samaritano ricovera l’incauto poveretto finito sotto le grinfie dei banditi (Lc 10:34). È l’ “albergo” (ovvero, la casa del viandante e del pellegrino) nel quale il nascituro Figlio dell’uomo e Figlio di Dio (l’Unigenito persino…) non trova un misero angolino di posto al momento di venire al mondo (Lc 2:7). ‘Locanda’, ‘Albergo’, ‘Ospizio’, ma anche ‘Osteria’ sono i nomi con i quali nei Vangeli si qualifica il mondo, il luogo nel quale noi ospiti e stranieri della vita, pellegrini e viandanti nel tempo, troviamo riparo e riposo, rifugio e casa. A sentire Matteo, l’evangelista, il termine più indicato per definire il posto del mondo dove ognuno vive (e, in definitiva, il mondo stesso) sembra proprio essere ‘osteria’. Infatti, per dire la condizione nella quale quel benedetto Figlio dell’uomo ha deciso di risiedere da sempre e per sempre, gli mette sulla bocca le seguenti imbarazzanti parole: “Ero straniero” (Mt 25:35). Matteo, che di Greco ne sa, per dire ‘straniero’ sceglie di usare il termine ‘xènos’, il quale fa il paio con il Latino ‘hostis’ –da cui la nostra famosa ‘Osteria’. Xènos – Hostis è lo ‘straniero’ in quanto ‘ospite’, ovvero in quanto persona che proviene da fuori, e con la quale –però- esistono vincoli di reciproca solidarietà. La solidità del diritto / dovere dell’ / all’ospitalità era in antichità sancita e protetta dall’istituto della ‘xenìa’ (ospitalità), che obbligava all’accoglienza dello straniero considerato come persona sacra ed inviolabile. Tutto ciò era legato alla convinzione che sotto le spoglie dell’ospite si potesse celare una divinità, e che dunque la violazione dell’obbligo all’ospitalità fosse un’offesa nei confronti del dio. La stessa convinzione è saldamente condivisa e confermata tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento: si vedano al riguardo l’episodio dell’accoglienza concessa da Abramo a Dio stesso presso le Querce di Mamre (Gen 18) , ed i numerosi richiami al dovere all’ospitalità dei vari autori neotestamentari (Ebr 13:2; Gal 6:10; Rom 12:13,20; 1Pt 4:9; At 14:6-20; At 16:15).
Accoglienza
E qua già si potrebbe pervenire ad un’interessante quanto facile-facile osservazione. L’accoglienza è di per sé una delle qualità divine che definiscono Dio come Creatore e Padre, fonte incessante della Vita ed eterno donatore di se stesso nella sua intima natura e sostanza di Amore. Qual è, infatti, è la continua opera di Dio Padre, se non accogliere ognuno e ciascuno dei suoi figli/e, peccatore ed indegno quanto mai si possa immaginare (least-last-lost), e condividere ad ogni istante con tutti e ciascuno la sua propria Vita nella qualità di Amore senza limiti? Qual è infatti l’incessante azione salvifica di Gesù Primogenito di tutti i suoi fratelli/sorelle, se non di rimanere -per sempre e fino al termine dell’eternità- Crocifisso nel mistero (l’Eucarestia) e nella realtà (prossimo a tutti i suoi crocifissi fratelli/sorelle, accanto ad ogni centurione e ad ogni ladrone, buono e/o cattivo), se non di farsi incessantemente ed eternamente least-last-lost, così che nessuno si possa non-accolto? Qual è infatti l’ininterrotta azione dello Spirito Santo nell’intima interiorità di ogni figlio/a di Dio, se non supplicare con il ricordo delle parole di Gesù Parola del Padre che chiama ciascuno dei suoi figli/e “Figlio Prediletto”? L’accoglienza è sempre, perciò, di per sé ‘accoglienza-di-Dio’, ed è azione ed atteggiamento che fa diventare divini. Chi accoglie condivide la natura di Dio, accogliendo si divinizza. Ciascun essere umano ha ‘naturalmente’ bisogno di essere accolto: tutti siamo ospiti, e la nostra identità è la relazione che gli altri hanno con noi, la loro accoglienza. Se non siamo accolti non esistiamo, ma quando accogliamo ci divinizziamo.
Ostile
Ok: so far, so good. Epperò, con calma e per favore. Infatti, tanto Xènos quanto Hostis godono di duplice ed ambivalente qualifica, indicando e significando lo ‘straniero’ (ovvero, Dio stesso, tanto per andare sul concreto) tanto come l’ ‘ospite’ da accogliere, quanto come il ‘nemico’ e l’ ‘avversario’ di fronte al quale stare per lo meno in guardia. Ci vuole un attimo, infatti, perché l’ hostis / hospis (l’ospite) mi diventi l’ hostis / hostilis (il nemico). Di fatti, lo straniero, colui che viene da fuori, ha il brutto vizio di starmi di fronte (è infatti l’ad-versario), e di farmi da specchio. Con ciò compie un’operazione pericolosa ed indesiderata: mi rivela a me stesso, mi fa dono della mia identità. Mi rivela soprattutto i miei limiti e la mia naturale mortalità, la mia fame di vita e di infinito, ed insieme la mia (e sua!) ugualmente connaturale e disperata ricerca di risorse per possedere e salvare ‘vita’ –insieme con la terribile competizione che lui stesso, colui che viene da fuori, mi pone e/o mi porrà nella rincorsa al possesso di mezzi e strumenti per allungare e salvare la vita. Poiché anche lui, lo straniero, è limitato e mortale quanto me, è assetato di vita quanto me, e non è per niente disposto a fare da spettatore e/o –peggio- da servitore al banchetto di vita eternizzata che con tutti i mezzi ognuno cerca di imbandire e preservare per se e per i ‘suoi’ nella casa, società, cultura che si è apparecchiato ed a cui si è seduto. Basta davvero solo un attimo perché l’ hostis / hospis (l’ospite) mi diventi l’ hostis / hostilis (il nemico), a volte in maniera irrimediabile…
Carità sconfinata
Appare perciò chiaro il motivo per il quale Dio stesso, in Gesù, si faccia continuamente per noi (a nostro vantaggio) ‘straniero’, insieme ospite ed ostile. Ci viene rivelata la profonda verità della natura della nostra umanità, ovvero la sua ‘limitatezza’, che è ragione e causa di morte ed insieme di salvezza eterna. Il termine ‘limite’ deriva dal Latino ‘limen’, confine, frontiera. La natura umana è di per sé ‘confinata’ tra le frontiere della ‘limitatezza’, con la morte quale più evidente sigillo di finitezza. Eppure un innato ed eterno desiderio di infinito e di illimitatezza anima ed, in qualche modo, sempre ‘perseguita’ lo spirito umano. Gesù, l’unigenito Figlio del Padre, primogenito Figlio dell’uomo, è venuto a rivelare ai suoi fratelli/sorelle l’intima natura di Dio come Amore, e di ogni figlio/a di Dio come amato. I limiti tipici della natura umana possono essere non solo la causa delle guerre che sempre contrappongono fratelli a fratelli, in lotta per accaparrarsi il possesso e lo sfruttamento quelle risorse / ricchezze alle quali è erroneamente affidato il desiderio di vita ‘eterna’ (si veda al proposito l’illuminante passo di Gc 4:1-4), ma anche le ‘frontiere’ attraverso le quali entrare in relazione con Dio Padre e con i fratelli. In altre parole: gli umani limiti sono lo strumento per realizzare la più autentica e naturale qualità e capacità umana, la relazione / comunione. I limiti della natura umana rappresentano i ‘confini’ attraverso i quali la relazione / comunione avviene, o è respinta. È attraverso la limitatezza, il fondamentale bisogno di vita che anima lo spirito e l’esistenza concreta di ciascun essere umano, che la relazione / comunione concretamente si attua, o si rifiuta. Gesù è davvero il Figlio primogenito del Padre, poiché vive nel confinamento della sua umanità la sconfinata comunione col Padre, consentendogli accesso ad ogni sua frontiera (ragione, volontà, amore), fino all’ultimo e definitivo ‘limen’, la morte. Con la sua morte e resurrezione, Gesù apre a tutti i suoi fratelli la strada della piena e definitiva comunione col Padre, perché tutti abbiamo Vita e Comunione di Amore, ovvero la vita divina, la vita eterna.
Maddalena la sapeva lunga
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Nelle parole di Giovanni apostolo, questa vita eterna e divina (vita sconfinata) è già ‘attivata’ e disponibile ora: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3:14). Il che, tradotto in pane e salame, significa che solo la carità illimitata, sconfinata è la via di salvezza dai e tramite i nostri limiti. Che ne dite? Non è forse evidente che Maddalena aveva già capito tutto: “La carità non conosce altri confini né altri paesi, che quelli che portano dall’imperfetto esercizio della carità in terra al perfetto esercizio della medesima in Cielo” (Regola Diffusa, p. 207)?