di fratel Enzo Biemmi
Per una fede “non necessaria ma determinante”
Per approfondire la conversione che ci viene richiesta rispetto alla fede che viviamo e che proponiamo nella nostra missione ritengo utile farci aiutare dal pensiero di due teologi: André Fossion e Christoph Theobal, entrambi gesuiti.
Così scrive André Fossion in un libro prezioso:
«La fede cristiana – e di conseguenza il suo annuncio – si regge su un paradosso: essa è radicalmente non necessaria per la salvezza, e tuttavia radicalmente preziosa per la vita, per la trasfigurazione che essa permette di vivere. Radicalmente non necessario, radicalmente prezioso: tale è, mi pare, lo statuto della fede cristiana come del suo annuncio».
Ci troviamo di fronte a un paradosso. Un paradosso è un modo di esprimersi basato su un’apparente contraddizione (in questo caso: fede non necessaria – fede radicalmente preziosa), che va contro una verità considerata evidente. Il paradosso ci spinge verso una comprensione più profonda della verità stessa, oltre le apparenze e i modi di pensare e di agire divenuti abituali, scontati. La fede “radicalmente non necessaria ma radicalmente preziosa” (e di conseguenza il suo annuncio) è uno di quei paradossi che ci aiuta a verificare la nostra visione del cristianesimo e dell’annuncio.
Ecco quanto afferma André Fossion:
«Rispetto all’esigenza principale, ossia la carità, la fede in Dio è secondaria. L’aspetto essenziale infatti, poiché Dio è amore, è quello della carità. Quest’ultima rappresenta l’esercizio di una grazia primordiale che, in se stessa e per se stessa, è sufficiente affinché venga il Regno di Dio, anche quando Dio non è riconosciuto. Eppure, se il riconoscimento di Dio non è necessario per generare la sua vita, questo appare comunque come una grazia supplementare che accresce ulteriormente la vita che Dio dona. Questa prospettiva si basa su una teologia della grazia che, per definizione, è eccessiva. Il fatto che Dio, senza rendersi necessario, ci generi donandoci la sua vita, è già una prima grazia. Che si lasci poi riconoscere, nella libertà, dall’uomo vivente, come un Padre benevolo, è una seconda grazia. […] È nella logica di questa grazia supplementare, non necessaria ma estremamente rivelatrice dell’amore di Dio, che la proposta della fede cristiana può essere ascoltata nel contesto odierno multireligioso e caratterizzato dalle convinzioni più diversificate».
Che cosa significa questo paradosso che può destabilizzarci, vista la formazione che abbiamo avuto?
A. L’amore di Dio è eccedente, eccessivo
Dio è in se stesso amore, comunicazione. La caratteristica di questa comunicazione divina ad intra e ad extra è il suo carattere debordante: l’amore di Dio è eccessivo, eccedente. La comunicazione “in Dio” si fa allora comunicazione “di Dio”, in Cristo prima e nello Spirito poi: la storia umana scaturisce dalla comunicazione in Dio che condivide se stesso gratuitamente.
È la natura stessa del Dio di Gesù Cristo, la sua identità profonda, che lo porta ad amare in maniera assolutamente gratuita ogni uomo e ogni donna, senza legare il suo amore all’adesione e al riconoscimento esplicito. È dunque un Dio, quello cristiano, che ha deciso di rendersi egli stesso ‘non necessario’. E qui siamo nel cuore di questo paradosso: la vita umana non può esistere senza l’amore eccessivo di Dio (che è dunque è necessario), ma questo amore nella logica della kenosi non si impone e non obbliga nessuno a riconoscerlo (si offre a noi come “non necessario”). Il Padre di Gesù Cristo si rende a tutti disponibile tramite il suo Spirito, senza eccezione e senza imposizione: è colui che sempre si dispone senza mai imporsi. È il totalmente gratis.
B. La fede radicalmente non necessaria e radicalmente preziosa
Qual è la conseguenza di questa visione dell’amore di Dio? Semplicissima: se la grazia di Dio è eccedente a questo punto, la fede cristiana diviene essa stessa radicalmente non necessaria per essere generati alla vita di Dio, ma allo stesso tempo essa è radicalmente preziosa per la vita. La trasfigura e le permette di vivere in un modo radicalmente nuovo. Il paradosso di un Dio necessario che decide di rendersi non necessario si traduce in un’adesione a lui (la fede) «non necessaria ma determinante» per la vita umana.
La fede non necessaria
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Questa frase significa che in se stessa la fede non è necessaria per gioire dell’amore di Dio e quindi per vivere umanamente bene la propria esistenza. Questa affermazione può apparire scioccante, ma in fondo è molto semplice: il riconoscimento esplicito della salvezza in Gesù Cristo non è una condizione per esserne destinatari. L’adesione esplicita al Dio di Gesù Cristo non è una condizione perché Egli ami e salvi tutti e tutte. Non è così rinnegata l’affermazione centrale della cristianesimo: Gesù Cristo morto e risorto è il Salvatore di tutti. Ma il riconoscimento esplicito del Dio di Gesù Cristo durante questa vita non è affatto una condizione obbligata per ricevere la sua vita in abbondanza. C’è dunque una ‘grazia prima’ che agisce in tutti (in tutte le persone, le culture, le religioni) e una ‘grazia seconda’, cioè una adesione esplicita a Lui per chi ne ha il dono supplementare. A tutti è stata data la grazia prima, a qualcuno anche la grazia seconda. Noi siamo tra questi.
È quanto aveva già affermato autorevolmente il Concilio Vaticano II.
«Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, e perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (GS 22).
L’espressione «dobbiamo ritenere» è un’affermazione conciliare, e pertanto normativa. E il contenuto di questa dichiarazione dogmatica è che tutti hanno la possibilità di essere associati al mistero pasquale. Il Catechismo della Chiesa cattolica, dopo aver citato il testo del concilio, utilizza un’espressione molto efficace: «Dio ha legato la sua salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia non è legato ai suoi sacramenti» (CCC 1257).
La fede radicalmente preziosa, cioè determinante
Collocare la fede nell’ordine del “non necessario” non significa ridurla alla natura del superfluo o del secondario. Significa invece situarla nel campo dell’esperienza umana di ciò che è “più che necessario”: il ‘non necessario’ come totalmente gratuito è di fatto ‘più che necessario’ nella nostra vita, riguarda qualcosa di prezioso che non ci si può dare da sé ma che, quando ci raggiunge, trasforma radicalmente la nostra esistenza. Immaginiamo due persone che si amano senza confessarselo, senza saperlo. Queste persone possono vivere così, ma la dichiarazione d’amore, benché non crei l’amore perché esiste già, cambia tutto. La dichiarazione trasfigura la vita e l’amore stesso dal momento che viene dichiarato, riconosciuto e manifestato. Il termine ‘trasfigurazione’ esprime bene l’effetto di questa grazia supplementare, che non è necessaria per vivere ma che, come la perla preziosa del vangelo, una volta trovata rende incomparabilmente piena la vita. Chi accede alla fede esplicita sperimenta così quello che Giovanni dice nel suo prologo: «dalla sua pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia» (Gv 1,16). La fede esplicita nel Signore Gesù è dunque una grazia seconda, una grazia radicalmente preziosa che si aggiunge alla grazia prima dell’esistenza e la riempie di gioia e di senso.
C. Uno stile di Chiesa e di evangelizzazione nel registro della grazia e non della necessità
Che conseguenze ha per noi tutto questo, per il nostro stile di missione? Dovrà essere una missione non nel registro del necessario (annunciamo il vangelo per salvare gli altri), ma nel registro della grazia supplementare, di un dono che come ha reso felici noi può rendere felici gli altri.
È difficile sostenere l’idea di una Chiesa necessaria se il suo Dio necessario si è offerto al mondo per propria decisione come non necessario e se la fede in lui è radicalmente non necessaria e al contempo radicalmente preziosa. Sarà invece una Chiesa che si concepisce come non necessaria, cioè relativa al Regno di Dio, eppure radicalmente preziosa e quindi anche lei determinante. Possiamo definire la Chiesa come « segno necessario », efficace ma a termine, perché non manchi nella storia un luogo nel quale viene confessato e vissuto a favore di tutti l’amore eccedente di Dio e dove si annuncia che questo amore non è per qualcuno ma per tutti e sarà il destino di tutti.
Una tale visione di Chiesa ci conduce necessariamente a un rapporto con la cultura attuale, con gli uomini e donne di oggi, basato su una “reciproca ospitalità”. In molte lingue il termine “ospite” ha due significati: indica sia colui che accoglie che colui che viene accolto. Nella lingua stessa degli umani è dunque inscritta la necessità di una reciprocità dell’accoglienza. L’ospitalità evangelica ha un fondamento teologico. La possiamo chiamare una “santità ospitale” (secondo l’espressione di Theobald). Siamo chiamati a fare quello che diceva Sant’Ignazio di Loyola: saper vedere Dio in tutte le cose. La Chiesa nella sua missione sa di essere preceduta dalla grazia di Dio diffusa in tutti i cuori e la “riconosce”. Il suo compito è dunque quello di “svelare” il volto di Dio nascosto in tutti, “togliere il velo” affinché tutti possano arrivare a dire, come Giacobbe: «Dio era nella mia vita e io non lo sapevo» (cfr. Gen 28,16). Ma questo “riconoscimento” di una grazia che la precede, diventa anche per la Chiesa una nuova grazia: essa deve lasciarsi raggiungere dalla parola di Vangelo custodita per lei nel cuore delle donne e degli uomini di oggi, a partire da quelli che sono poveri e lontani da lei.
È per questo motivo teologico che siamo chiamati a non assumere mai atteggiamenti aggressivi nei riguardi delle culture nelle quali viviamo, ma ad abitarle con speranza, perché solo assumendo la cultura e appoggiandosi su alcune sue categorie la fede cristiana salverà la cultura e salverà se stessa: si manterrà cioè fedele alla sua identità, poiché essa esiste non per se stessa ma per evangelizzare.
D. L’evangelizzazione necessaria
A questo punto ci sorge un interrogativo: ma allora, se è così, se Dio salva misteriosamente tutti, che bisogno c’è di annunciare il vangelo? E come interpretare il comando del Signore Risorto ai suoi discepoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15)? Proprio la fede che abbiamo definito non necessaria ma determinante rende assolutamente necessaria l’evangelizzazione.
Segnaliamo tre ragioni per cui l’annuncio di un vangelo gratuito (“non necessario”) è più che mai necessario.
a) Paolo VI si esprimeva così:
«Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna – ciò che s. Paolo chiamava “arrossire del Vangelo” – o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?» (EN 80).
Il senso di questo testo è il seguente: Dio può salvare e salva al di là del nostro annuncio; ma se noi non annunciamo, potremo essere salvi? Non perché manchiamo a un dovere, ma nel senso che noi, oggetto grazioso della grazia seconda, non l’abbiamo fatta nostra, non ci ha raggiunto. E allora è legittima la domanda sulla nostra salvezza. Se l’incontro con il Signore Gesù ha raggiunto la nostra vita, questo non può essere tenuto per noi stessi. Se lo teniamo per noi stessi, allora significa che non ci ha raggiunto veramente, e quindi è legittima la domanda sulla nostra salvezza.
Dunque, l’evangelizzazione è necessaria per noi, per la nostra identità profonda.
b) La seconda ragione della necessità dell’annuncio viene dalla gioia di quanto ci è stato dato gratuitamente. È quanto ci dice Giovanni all’inizio della sua prima lettera: «Perché la nostra gioia sia piena» (1 Gv1,1-4). Questo testo ci fa capire che mancherà sempre qualcosa alla nostra gioia se gli altri non potranno avere la stessa nostra fortuna. La Chiesa non è veramente felice fino a quando tutti non potranno godere della sua stessa felicità, quella di avere incontrato e riconosciuto il Signore Gesù.
Dunque, evangelizziamo per esigenza intrinseca di felicità.
c) E c’è infine un terzo motivo, che Papa Francesco mette bene in evidenza.
«L’entusiasmo nell’evangelizzazione si fonda su questa convinzione. Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare … non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è lo stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso ad ogni cosa. È per questo che evangelizziamo» (Evangelii Gaudium, 264-266).
Il terzo motivo della necessità dell’evangelizzazione è dunque l’amore per le persone, l’esigenza di dare loro quello che di più prezioso abbiamo, perché “non è la stessa cosa”, e se non è la stessa cosa per noi non possiamo tenere per noi questo tesoro. In fondo parlare di una fede radicalmente non necessaria ma radicalmente preziosa può essere spiegato e compreso con il linguaggio semplice di Papa Francesco: «non è necessario, ma non è la stessa cosa »!
A noi, che abbiamo ereditato il cristianesimo del dovere e quello dell’impegno, una tale proposta chiede una profonda conversione di mentalità.
Possiamo allora riassumere. La fede nello stile del gratuito, del “non necessario ma determinante”, rende l’evangelizzazione necessaria per tre motivi:
- Prima di tutto per noi stessi, per la nostra salvezza;
- Poi per la nostra gioia, cioè per un’esigenza di gratitudine insita al dono della fede: «perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,4);
- Infine per la nostra carità, che dona agli altri quello che di più prezioso possiede.
Noi evangelizziamo per custodire noi stessi, per la nostra gioia e perché amiamo veramente le persone che incontriamo.
Ho provato a delinearvi brevemente il contenuto e lo stile di evangelizzazione che come religiosi/e siamo chiamati a promuovere. Quando parlo di questo in ambienti istituzionali della Chiesa, sento sempre da una parte un interesse, dall’altra una serie di perplessità. Ma noi religiosi e religiose non dobbiamo avere paura di queste prospettive che papa Francesco ci affida. Noi siamo chiamati a sottolineare per vocazione il sovrappiù della grazia per opera dello Spirito. Per questo nella nostra missione siamo più liberi e svolgiamo una funzione di profezia, di anticipazione. Noi siamo collocati dal Signore nello spazio di ciò che non è ancora realizzato ma che è promesso a tutti. Di questo noi siamo testimoni nel mondo, questa è la nostra missione. Un testo di Madre Teresa di Calcutta esprime bene questo compito profetico che ci è affidato. Parlando di lei e delle sue sorelle così scrive:
«Il nostro proposito è di portare Gesù e il suo amore ai più poveri tra i poveri, indipendentemente dalla loro estrazione morale o dalla fede che professano. Il nostro metro per soccorrerli non è la loro fede, ma il loro bisogno. Noi non tentiamo mai di convertire al cristianesimo quelli che aiutiamo, ma nella nostra azione portiamo testimonianza della presenza d’amore di Dio, e se per questo cattolici, protestanti, buddisti o agnostici diventano uomini migliori – semplicemente migliori – siamo soddisfatte. Crescendo nell’amore saranno più vicini a Dio e lo troveranno nella sua bontà… Alcuni lo chiamano Ishwar, altri lo chiamano Allah, altri semplicemente Dio, ma tutti dobbiamo renderci conto che è Lui che ci ha fatti per cose più grandi: per amare e per essere amati. Ciò che conta è amare».
Ci troviamo qui nel campo della profezia. Siamo un passo più avanti del compito di evangelizzazione, o meglio, siamo nell’esito finale dell’evangelizzazione. Siamo già profeticamente nel futuro di Dio, dove tutte le religioni avranno terminato il loro compito e con esse anche la Chiesa. La fede infatti passa, e anche la speranza. Solo la carità rimane.