Quale fede viviamo e annunciamo? Dal dovere alla grazia

Quale fede viviamo e annunciamo? Dal dovere alla grazia

di fratel Enzo Biemmi

Verso un cristianesimo della libertà e della grazia

Le prime due tappe del nostro percorso ci hanno aiutato a comprendere come un cambiamento di epoca chieda alla comunità ecclesiale un cambiamento di paradigma pastorale. Evangelii gaudium ci ha presentato un nuovo modo di intendere la missione, una nuova visione di Chiesa, un nuovo modo di concepire il contenuto dell’annuncio. Ma rimane un’altra questione, la più importante. Non siamo chiamati solamente a cambiare mentalità apostolica: siamo invitati a rivedere la figura di fede che abbiamo ricevuto e che in modo inconsapevole noi comunichiamo agli altri nella nostra missione. Andiamo alla ricerca, per noi e per gli altri, di una figura di fede “culturalmente abitabile, vivibile, sensata e desiderabile” nei nostri contesti di apostolato, segnati ormai ovunque dalla pluralità, dalla biodiversità.

Cosa intendiamo per “figura di fede”? Intendiamo il modo con cui noi interpretiamo il cristianesimo, stabiliamo il nostro rapporto con Dio, lo traduciamo in atteggiamenti e orientamenti di vita. La figura di fede che noi viviamo è oggi culturalmente comprensibile e vivibile, per noi e per coloro a cui è diretta la nostra missione? Non possiamo né vivere né proporre una forma di fede che caratterizzava il secolo XIX, quando è nato il carisma. La sfida della missione non è solo questione di cambiamento di strategie pastorali: essa chiede un nuovo modo di intendere e vivere la fede.

È questa, a mio parere, la domanda e la sfida più importante oggi, per la Chiesa e per la vita religiosa.

Quale figura di fede in un contesto plurale? Dal dovere alla grazia

È necessario che siamo consapevoli dell’educazione e della formazione da cui proveniamo.

Il cristianesimo del dovere

Noi veniamo da un cristianesimo del dovere. Dire fede cristiana era dire fondamentalmente tre cose: la dottrina (le cose che bisogna sapere); le pratiche religiose (le funzioni a cui bisogna partecipare, in primis la messa domenicale, sotto pena di peccato mortale; confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua); i comandamenti (quello che si deve fare e non si può fare). Al centro c’era il dovere.

Questo modo di concepire e vivere la fede era in sintonia con una cultura dell’ordine, una società gerarchicamente costituita, nella quale si era educati a onorare gli imperativi, a assolvere con fedeltà i propri compiti, a eseguire gli ordini ricevuti, a rispettare la conformità dei comportamenti. In questa cultura il cristianesimo era apprezzato come un contributo decisivo della convivenza e della stabilità sociale. Uno strato di noi tutti è indelebilmente costituito da questa figura di fede. Il cristianesimo è la religione dei doveri, verso Dio e verso gli altri. Quando incontriamo degli adulti in Europa, ad esempio, è questa fede che loro hanno ereditato e che hanno sperimentato nella Chiesa. È anche la figura di fede che ha portato molti ad allontanarsi dalla Chiesa, soprattutto i giovani.

Il cristianesimo dell’impegno

Ma c’è un secondo strato. Quello di una figura di fede nata nel periodo del Concilio e sviluppatasi negli anni successivi: il cristianesimo dell’impegno, delle cause, delle sfide umanitarie e sociopolitiche, delle organizzazioni caritative, del servizio verso i più poveri. Questa forma di fede ha segnato un passaggio importante rispetto alla prima, senza soppiantarla, anche in questo caso un passaggio culturalmente segnato. Eravamo in un contesto caratterizzato da una grande fiducia nello sviluppo umano, dall’ottimismo rispetto a quello che la forza di un uomo può fare, all’immagine di un futuro caratterizzato dal progresso inarrestabile e dal benessere.

Questo cristianesimo resta in noi come una strato secondo: noi siamo i cristiani allo stesso tempo del dovere e dell’impegno, quelli dei comandamenti e della generosità senza limiti. Anche la nostra formazione di religiosi e religiose è intessuta di questa visione: abbiamo un forte senso del dovere (è il primo strato) e sentiamo che ci dobbiamo spendere per gli altri fino in fondo (è il secondo strato), in nome del vangelo. La nostra missione è evidentemente segnata da questo orizzonte. Questo senso del dovere unito a quello della dedizione qualche volta ci ha anche fatto perdere l’equilibrio. Ci siamo impegnati totalmente per gli altri, trascurando la formazione personale e il tempo necessario per prendersi cura di se stessi. Questo è andato a scapito qualche volta anche della serenità del nostro impegno apostolico.

La maggioranza dei cristiani in tutte le parti del mondo ha questa esperienza di fede: essa è una questione di dovere e di impegno.

Oltre doverismi e volontarismi

Ora questo modo di intendere la fede (dovere e impegno) non risulta più attraente, non è più sentito come rispondente alle esigenze profonde delle persone di oggi, noi compresi. Perché? Perché siamo in crisi rispetto a quelle due culture caratterizzate dal dovere e dall’impegno. Non è più l’epoca della stabilità e della conformità; non è più quella del sogno della trasformazione del mondo sulla base di un ottimismo senza limiti nelle forze umane. Al dovere è subentrata la libertà, all’onnipotenza il senso del limite. La cultura del dovere ha lasciato spazio a quella della libertà, con il rischio, certo, di una libertà vuota (una libertà ‘da’, senza essere accompagnata da una libertà ‘di’, ‘per’ e ‘con’). La cultura dell’impegno, dopo il disincanto, ha fatto emergere un desiderio più pacato di cura, prima di tutto per se stessi, per la natura, per il futuro del nostro pianeta, per la nostra umanità. Con il rischio, certo, di ripiegamento sul soggetto e sul suo benessere individuale (narcisismo). Al di là dei rischi culturali (che non possiamo sottovalutare) sentiamo oggi la necessità di una visione meno volontaristica, meno onnipotente, più consapevole del male che ci possiamo fare, in fondo più bisognosa di salvezza.

Quale figura di fede sarà dunque oggi culturalmente abitabile, per noi e per le persone che incontriamo? Il problema non è infatti solo per gli altri, ma prima di tutto per noi.

Quale fede può farci vivere questo tempo del disincanto, della riscoperta della fragilità umana, del rischio della disumanizzazione, della perdita di memoria e di speranza?

Quale fede può reincantare la cultura occidentale dopo il disincanto?

Il cristianesimo della grazia

Come abbiamo visto Papa Francesco ha portato il baricentro della fede su un altro punto fermo, che non è né il dovere né l’impegno. Basta guardare i titoli dei suoi tre testi programmatici: Evangelii gaudium; Laudato si’; Amoris laetitia. Quest’ultimo documento inizia in modo particolarmente bello: «La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa». Dire ‘il vangelo della gioia’ per parlare dell’evangelizzazione (EG), esprimere un sussulto di lode a Dio per il dono della casa comune (LS) e parlare di ‘letizia dell’amore’ per i legami familiari significa tracciare i lineamenti di una fede che scaturisce da un evento di grazia, irrompe nell’esistenza senza meriti, ci raggiunge precedendo ogni nostra prestazione morale e ogni nostro generoso impegno, e per questo ci rende gioiosamente grati. È sentirsi donati a se stessi, per una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita” (AL 296-297). Questa è “un’altra figura di fede”.

È un cristianesimo della grazia. La fede nel segno della grazia si basa sull’esperienza di un amore incondizionato. Tutto ci è donato: il vangelo, la casa comune da custodire, l’amore di coppia e familiare. Questa esperienza connota di gioia (certo non di spensieratezza) la missione della Chiesa (evangelizzare), la cura del creato e la vita umana in ognuna delle sue espressioni. È dunque la fede nella possibilità di vivere con speranza, perché siamo preceduti e custoditi. Questo non per le nostre forze, ma per grazia.

Una fede così non ci chiede di rottamare nulla di quanto abbiamo avuto nella nostra formazione, né la strutturazione morale che ci è stata data (di cui siamo grati), né la generosità e l’impegno a cui siamo stati allenati. Ma li trasfigura. Non ne fa il punto di partenza, ma l’eco grato di vite segnate dalla gioia evangelica, anche nel buio e nella sofferenza, perché salvate. Così, la riscoperta di una fede non basata sulla paura (da cui il dovere) né sui meriti (da cui l’impegno) ma sulla riconoscenza, non solo non rende irresponsabili o disimpegnati, ma moltiplica la responsabilità e la generosità, perché chi ha sperimentato di essere amato è spinto a non sciupare un dono così prezioso ed è in grado di fare della propria vita un dono per gli altri: un dono di riconoscenza per ciò che gratuitamente si è ricevuto e che solo donandolo gratuitamente si conserva. Con una differenza fondamentale: impariamo la misura giusta, quella che viene dal fatto di sapere che tutto viene da Lui, anche le nostre forze, ed è Lui che ha salvato e continua a salvare il mondo. Noi siamo servi inutili.

Siamo chiamati ad entrare in un orizzonte di grazia, di gratuità e di gratitudine. Paradossalmente, è solo quando nella nostra vita i conti non tornano più, quando non abbiamo più nulla da esibire davanti a Dio, quando a lui non siamo in grado di presentare se non le nostre povertà, allora è possibile che muoiano dentro di noi le immagini degli idoli e finalmente possa farsi luce il volto di Dio Padre. Il misericordioso.

La fede identificata con il dovere e persino quella solo identificata con l’impegno non hanno futuro e non parlano più alle persone di oggi. Né la prima né la seconda sono una figura di fede “missionaria”, cioè in grado di sorprendere, di interrogare, di convertire.

Qualsiasi rinnovamento della missione non avrà esito se non avremo operato questa conversione e non saremo entrati in un orizzonte di grazia, quella grazia che ci rende responsabili e impegnati. In noi le persone hanno bisogno di vedere riflessa la gioia di una fede che ci porta alla testimonianza gratuita e all’impegno. Non una fede legata ai doveri e al volontarismo delle nostre forze. Solo la nostra conversione di fede alla grazia potrà sorprendere e riavviare altre persone alla fede.